Mi chiamo Deva Bhakti, che significa devozione divina.
Ho 51 anni e sono madre di Costantino che ha 13 anni e mezzo. Insieme a lui e al mio compagno Pravas abitiamo a Dolo, un paese sul fiume Brenta, tra Padova e Venezia.
Da giovane ho avuto una grande passione per la letteratura e il teatro cimentandomi come regista di prosa: l’ultima produzione risale al 2007.
Da allora lavoro come educatrice teatrale edanzaeducatrice
prevalentemente con i bambini, con genitori e bambini insieme e in progetti di Teatro di Comunità che coinvolgono persone di varie età. Da qualche anno collaboro a un progetto di outdoor education, arrivato proprio poco prima della pandemia, che mi ha permesso di attraversarla, mentre tutti i teatri erano chiusi e la vicinanza con le persone interdetta, restando acontatto con la forza vitale dei bambini e della natura.
Avevo trentatré anni. La morte di mio padre mi catapultò in un buco di dolore. Prima di quell’evento avevo attraversato varie fasi “buie”, nonostante facessi qualcosa che mi coinvolgeva tantissimo, nonostante fossi socievole, bella, sostenuta dalla famiglia nelle mie scelte artistiche. Mi misi alla ricerca… quella volta non ce l’avrei fatta da sola.
Dapprima incontrai un gruppo di Bologna che faceva delle letture di Gurdjieff, poi sperimentai la meditazione Kundalini nel seminterrato di un hotel al Lido di Venezia, dove una delle mie più care amiche stava praticando le meditazioni di Osho. Ricordo ancora il mio corpo abbandonarsi totalmente a quella musica, senza freni, come trasportato dalla necessità di lasciarsi andare totalmente, lasciar andare il peso e con esso tonnellate di dolore.
Alla fine ebbi i conati di vomito: vomito eterico lo definì lei (oggi Amar Leela). E così continuai a praticare la “Kundalini” a casa da sola e a star male. “Ma perché la fai se stai male?”, mi chiese un giorno un’amica. Sentivo che, oltre il malessere, emergeva ogni volta la sensazione più profonda che qualcosa si stesse pulendo, si “alleggerisse” e “chiarisse”. Fu così che provai il primo gruppo di Osho Neo Reiki con Gyam Prem, la mia prima costellazione familiare con Kovida e altri gruppi terapeutici che il seminterrato dell’Hotel Rivamare, ben presto divenuto “Centro di Meditazione Osho Ki6”, via via cominciò a ospitare. In quei due anni di lenta ma sostanziale “trasformazione” riuscii a concludere definitivamente una relazione che mi aveva assorbita e scombussolata per anni, a mettere in scena dei testi di cui avevo curato la drammaturgia, a lavorare con i bambini senza sapere da che parte iniziare. M'innamorai di Pravas durante l’ultima produzione (lui era l’attore protagonista) e dopo un anno, giugno 2008, rimasi incinta. Con la maternità e la meditazione si aprì decisamente un nuovo capitolo, in cui si leggeva sempre più frequentemente e a caratteri sempre più marcati la parola “consapevolezza”.
Mentre scrivo, ripercorrendo il mio incontro con la meditazione, provo gioia, commozione e gratitudine verso Osho, verso le persone che mi hanno portato a fare i primi passi e verso coloro che continuano a sostenere il mio cammino di ricerca. Provo gratitudine, e ciò potrebbe sembrare paradossale, anche verso quei periodi bui, verso quell’evento di morte che mi ha dato la chance di fermarmi, di guardarmi dentro. Ed è questo che la meditazione mi offre: la possibilità di guardarmi dentro, di osservarmi anche durante la quotidianità, “vedere” le emozioni, le reazioni, le contratture, la possibilità di abitare giorno dopo giorno il mio corpo sempre più consapevolmente. Le meditazioni dinamiche di Osho, infatti, sono state e continuano a essere per me lo strumento che mi conduce dal piano mentale a quello corporeo del “qui e ora”, che mi aiuta a scendere nella concretezza della realtà materica agevolandomi così nella vita pratica (pagare le bollette, emettere le fatture, non dimenticarmi mio figlio a scuola). Meditare mi aiuta a conoscermi sempre più a fondo, a guardare agli eventi e alle persone che incontro come a qualcosa che mi riporta a me stessa, alla mia interiorità e responsabilità (abilità di rispondere).
Ci ho messo parecchi anni a riconoscere Osho come mio Maestro, a riconoscerlo come guida potente dietro ai terapisti e ai meditatori che mi hanno sostenuta. Ci ho messo sette anni a prendere il sannyas, sette anni ad arrendermi al Maestro. Ogni volta che l’inquietudine permane, che i giudizi su me stessa si affollano, che la difficoltà di prendere una decisione mi fa venire il mal di testa, indosso il mala, chiudo gli occhi e mi connetto al respiro… Dopo qualche tempo mi appare il volto del Maestro che sorride, sorride e sorride. Mi riporta a casa.
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